Ho divorato questo libro in un paio d’ore. Letta l’ultima parola, un senso di inquietudine mi ha assalito, come un brivido febbrile che scuote tutto il corpo. Un pugno allo stomaco forse, un tuffo in un passato doloroso.
“Lacrime impure” quelle che ho versato non appena ho chiuso il libro, riaprendo una ferita di un passato ormai lontano, che pare appartenere a un’altra persona, non a me.
Furio Monicelli descrive magnificamente l’annullamento della propria personalità, della ricerca personale, dello spirito critico, aspetti che divengono “immorali” per un “buon” gesuita.
Nel romanzo si contrappongono due figure principali: quella del personaggio, Andrea, che incarnerà le ipocrite sembianze de “il gesuita perfetto” (titolo originale del romanzo), e quella di Zanna, che vive il noviziato come un tormento e giunge a concludere che quello stile di vita è innaturale per un uomo intellettualmente vivace, poiché uccide la voglia di scoprire, di vivere, di affermare il proprio io e il proprio pensiero a scapito di una vita d’apparenza, fatta solo di monotone abitudini quotidiane create per annientare ogni alito di intima e autonoma riflessione.
Alla fine, per me, è Zanna il vero eroe, un uomo che comprende che le regole gesuitiche soffocano anche il minimo germe di vitalità e di fede, che allontano un credente dal suo dio per ingabbiarlo in una trappola di schemi dogmatici micidiali.
È più semplice vivere sotto l’egida di una veste talare, rifugiandosi dietro allo schermo dell’ipocrisia, delle frasi preconfezionate, vivendo in una dimensione protetta e “disumana”, che cercare di vivere liberamente in mezzo alla gente, affermando il proprio io divino.
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