Tommaso e quel calcio mai dato al pallone

Chissà cosa penserà la gente!?”.
Tommaso era cresciuto sentendo questa frase, che come un mantra tibetano risuonava nella sua mente ogni volta che doveva fare qualsiasi cosa.
Sai com’è! La gente parla!”. A volte sparla pure.

È proprio vero che il modo in cui veniamo cresciuti ci influenza da adulti. L’educazione ricevuta tratteggia la personalità con segni profondi, impronta i comportamenti. E, pure se sono passati trent’anni, Tommaso quel mantra lo sente echeggiare ancora, anche se ora si preoccupa di meno dei giudizi della gente, delle dicerie, delle chiacchiere maligne fatte con la mano davanti alla bocca, come se questo schermo impedisse al cielo di sentire. Quella mano dovrebbe stare sulla coscienza, non dovrebbe coprire le labbra.

Quando era piccino, i suoi compagni di classe bucavano almeno un pallone a settimana. A lui ne hanno comprato solo uno e ce l’ha tuttora, non ha neanche un graffio. Quante volte avrebbe voluto dare calci a quel Super Santos arancione, ma aveva paura di sbagliare perché era un po’ goffo. Così inventava sempre una scusa, una volta gli faceva male la gamba, un’altra volta preferiva rimanere a casa a studiare pianoforte, un’altra ancora diceva che sarebbe dovuto andare via subito, ma poi rimaneva con le manine aggrappate a quella rete verde che delimitava il campetto e gli pareva quasi di essere quel pallone preso a calci dalla vita, ma ancora neanche lo capiva.
Quel senso di esitazione mista a impaccio Tommaso se l’è portato dietro per tutta la vita.
Le vecchiette del paese dicevano che fosse un bravo bambino perché andava ogni domenica in chiesa e serviva messa. Ma quelle vecchie bigotte, che poco prima di prendere la comunione sgomitavano l’un l’altra indicando una ragazza madre, che ne potevano sapere che lui ci andava solo perché era un’occasione per uscire di casa? Pure a catechismo andava, ogni mercoledì alle tre in punto, anche se quell’immagine del diavolo con le corna tra le fiamme dell’inferno sul libricino ingiallito del prete gli faceva paura. Allora lui stringeva gli occhi forte forte così non la vedeva più.
Però la gente non lo capiva. Gli altri genitori lo indicavano come esempio agli altri figli, che magari andavano male a scuola.

Tommaso amava i libri perché non parlano mai alle spalle, perché dicono le cose anche se non hanno bocca.
Aveva iniziato a leggere e a scrivere a quattro anni. Era figlio di insegnanti, a casa i libri non sono mai mancati. Aveva dato il tormento alla madre e alle mastre affinché gli insegnassero a leggere già a tre anni e mezzo. Alla fine vinse lui. E, quando a Natale gli regalarono tanti libri di favole, era il bambino più felice del mondo. Se li leggeva da solo, non voleva che gli altri gli leggessero le fiabe. L’unica che poteva raccontagliele era nonna Peppina. Solo a lei era permesso di “cuntari u cuntu”, quasi sempre lo stesso.
Per questo Tommaso si chiudeva nella cameretta a leggere pomeriggi interi e, quando la scuola finiva, lui era triste perché le giornate da solo non passavano mai, sembravano secoli. Poi scoprì la piccola biblioteca comunale e così usciva più spesso. Era ogni giorno in biblioteca, Enza la bibliotecaria gli voleva bene, anche perché là non ci andava mai nessuno. Tommaso conosceva l’ordine di ogni scaffale. Ogni volta che prendeva in prestito un libro, lo faceva con devozione come se stesse prendendo la comunione.
A lui piacevano i romanzi, i libri di avventura e i gialli. Un giorno però Enza non gli voleva dare un libro che lui aveva visto: “Non è cosa per picciriddi questa!”. Allora lui lo rubò di nascosto e se lo portò a casa. Si sentiva come se avesse svaligiato una banca. L’indomani lo restituì senza farsi vedere, tanto lui non aveva capito niente di incesto, stupri e violenze.
Nel 1997 gli diedero il premio come lettore più assiduo della biblioteca. Era la festa della befana, lui se lo ricorda ancora. Era nella sala consiliare del paese, c’era il sindaco e c’erano tante persone. Ma lui quella targa avrebbe voluto tirarla in testa a tutti e scappare via. Loro non lo capivano che su quell’ottone luccicante c’era scritto che lui si sentiva solo. No, loro applaudivano.

Un giorno Tommaso si innamorò di un libro. Aveva il dorso della copertina scuro, le incisioni dorate disegnavano dei motivi buffi: “Eugenio Montale, Tutte le opere”. Lui neanche sapeva chi fosse, prese il libro perché gli piacque la copertina. Aveva 12 anni, Tommaso. Trattava quel libro come una reliquia, sfogliava le pagine con attenzione maniacale, con delicatezza. Non capiva nemmeno tutte le parole, però sentiva che quelle poesie gli piacevano e lo turbavano. Tommaso prese in prestito quel libro per quasi tre anni e piano piano cominciò pure lui a scrivere poesie.
Quando scriveva, Tommaso non aveva bisogno di indossare maschere, di essere sempre il bambino educato e gentile, rispettoso degli altri. Se teneva la penna in mano, lui non era più quel bambino timido e impacciato, che evitava il contatto visivo e magari rispondeva a monosillabi per non porsi al centro dell’attenzione. Tanto Tommaso le sue poesie non le faceva leggere a nessuno, le chiudeva sotto chiave, le nascondeva, così come nascondeva al mondo le sue emozioni.

Con le sue poesie e i libri, piano piano Tommaso è cresciuto, anche se spesso si sente ancora quel bambino che andava in biblioteca. Però oggi a lui non importa molto di quello che pensano gli altri di lui. Si sa, la gente parla sempre, ma ormai vive lontano e le chiacchiere non può sentirle.
Ora Tommaso è un uomo, ha una folta barba nera che gli incornicia il viso bianco e spesso se l’accarezza come se volesse fare le coccole a quel bambino che è stato, per rassicurarlo, per dargli speranza. Però lui è rimasto sempre quel bambino timido e impacciato. Ad alcuni sembra algido e distaccato, ma, quando si sente voluto bene, comincia a raccontare barzellette, scherza e fa il buffone.

Da qualche settimana è strano. Ha cominciato ad abbracciare alcune persone particolari, lui che ha sempre evitato il contatto fisico. Forse inconsciamente pensa di recuperare gli abbracci smarriti, così sorride di più e cerca lo sguardo degli altri, anche se a voce certe cose non riesce ancora a dirle e allora scrive.
Io Tommaso lo conosco bene, oggi a lui non importa più nulla dei pettegolezzi. E lui, a dire il vero, non ha paura neanche del contatto umano, è solo timido, aspetta che siano gli altri a mettergli una mano sulla spalla per primi. Lui certe cose non te le dice neanche se gliele cavi dalla bocca, sul palcoscenico non si affaccia neanche se glielo spingi a calci, ma guarda con ansia da dietro il velluto del sipario. Alla fin fine, Tommaso vuole solo essere preso per mano, vuole che gli si dica che domani andrà bene e che non cadrà il mondo se sbaglia a dare un calcio a quel pallone.

(Salvatore Castrianni, 2016)

Una risposta a "Tommaso e quel calcio mai dato al pallone"

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  1. Che bello leggere un testo, forse autobiografico ma poco importa. La bellezza sta nell’uso corretto della punteggiatura, nelle parole che scorrono senza incepparsi in ripetizioni. Scrivere bene ma anche leggere e rileggere, senza fretta, per non lasciare refusi. Una bella prova.

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